Integrazione: un viaggio alla scoperta di noi e gli altri
Integrazione – dal latino integratio: in senso generico, il fatto di integrare, di rendere intero, pieno, perfetto ciò che è incompleto o insufficiente a un determinato scopo, aggiungendo quanto è necessario o supplendo al difetto con mezzi opportuni.
Questa è la prima definizione di “integrazione” che troviamo nel vocabolario. A me non è mai piaciuta, perché, se applicata alle persone, presuppone che chi deve essere integrato è incompleto, insufficiente. Eppure, il terzo articolo della Dichiarazione Universale dei Diritti Umani dice così: “Ogni individuo ha diritto alla vita, alla libertà, ed alla sicurezza della propria persona.”
Quindi, in teoria, partiamo tutti dallo stesso punto, siamo tutti uguali. Allora chi dobbiamo integrare? Dove? Perché, sempre la stessa Dichiarazione, ci dice che ogni individuo ha diritto di lasciare qualsiasi paese, incluso il proprio, e di ritornare nel proprio paese. (art.13)
Sì, sembra utopia, ora che non possiamo muoverci. Ma come genere umano ci siamo sempre spostati e abbiamo sempre cercato di meglio. Un posto al sole, più caldo, più sicuro, al riparo.
Così, visto che la storia delle persone è da sempre una storia di movimento, ricordiamoci che la storia di ognuno è creata dal suo cammino. Come quelle dei migranti lungo la rotta balcanica, che camminano da anni, alle porte dell’Europa, e che spesso facciamo finta di non vedere. Questo inverno, al freddo, nel campo di Lipa è divampato un incendio il giorno della Vigilia di Natale e centinaia di persone sono rimaste sotto la neve, senza alcun riparo, mentre cercavano di raggiungere un luogo più sicuro. Il suo cammino lo ha avuto anche il piccolo Alan Kurdi, un bambino siriano di soli tre anni che nel settembre del 2015 è annegato nel Mar Mediterraneo e come lui, prima e dopo, innumerevoli – davvero, si fa fatica a contarle – persone hanno perso la vita. In mare, o nel deserto. O in campi di tortura.
Quelli che non muoiono sono i più fortunati, ma non finiscono mai il loro cammino. Perché una volta arrivato in un paese, qualsiasi esso sia, devi cominciare da campo, sempre. E credetemi, non è mai facile. Il cammino non finisce, e anzi, spesso è tortuoso: fatto di ostacoli, a cui si sommano gli insulti, la sfiducia e la nostalgia di casa. Fidatevi, quasi nessuno vuole partire. Tutti hanno un motivo per andare. La mia terra è dove poggio i miei piedi; anche se fa male, anche se costa fatica. Le nostre storie sono infinite. Ciascuna è unica e speciale, ma ciò che le accomuna è la voglia di ricominciare.
Ricominciare. Che bella parola. Di questi tempi, poi, tutti vorremmo ricominciare. Ma se ci pensiamo bene, ricominciamo ogni giorno: quando l’alba dà il cambio al tramonto, ricominciamo; dopo la pausa pranzo, ricominciamo; magari anche dopo una doccia fresca. Quando facciamo la pace, ricominciamo. Anche la natura, in primavera, ricomincia. E un bambino, quante volte ricomincia? Perché allora facciamo così tanta fatica a riconoscere la dignità di un migrante? In fondo l’unica cosa che vuole è ricominciare. E tutti ne abbiamo il diritto.
Quindi, una volta che scappi perché devi, o cambi perché vuoi – sempre mosso da quell’ancestrale desiderio di trovare il sole, di ricominciare al sicuro, dove si sta meglio – sei esattamente come tutti gli altri. Sei sempre stato come chiunque su questa terra si sia mai spostato.
Quando arrivi a destinazione ti scontri con una realtà in cui ti devi integrare (ché non ti integra quasi mai). E ti fai largo, con le tue forze, con le tue fatiche. Con la tua vita passata e magari una laurea in tasca – o una pagella cucita nella giacca – e sempre una famiglia in testa, e nel cuore. Allora ti integri, passo dopo passo, e speri di non commettere sbagli, di non essere scomodo. Speri di essere sulla buona strada. E devi fare il doppio della fatica per dimostrare che vali, che sei degno di essere lì. Devi chiedere permesso per ricostruire una vita dove si sta meglio – anche se poi questo meglio è relativo, perché ciò che succede nel profondo di te in pochi lo sanno. Forse, poi, arriva un giorno in cui decidi di fermarti e smetti di dimostrare a tutti che il posto che ti sei guadagnato a fatica un po’ te lo meriti. Perché per quanto le nostre storie possano essere speciali e toccanti, siamo umani. E come tutti gli umani, tu che sei partito, vuoi sì ricominciare, ma sei anche curioso, e ti piace ciò che è bello! Quindi vuoi scoprire e spesso anche studiare; e se non sei già laureato quando arrivi in altro paese può anche passarti per la testa l’idea di laurearti lì, o almeno di frequentare qualche corso. Già. Non sono tutte badanti, donne delle pulizie, o muratori. Insomma, ad un certo punto ti accorgi che sei una persona, al pari delle altre. E così, al pari delle altre, spesso dai più di quanto ricevi.
E allora dove sta, ora, l’integrazione? Dove sta l’integrazione nella storia di Agitu, che in Trentino si stava prendendo cura della capra pezzata mochena, autoctona, del posto. Chi è più trentina di lei? E chi ha integrato chi, nella storia di Natalia Dimitrova Beliova, la badante bulgara che la scorsa settimana ha salvato dalle fiamme gli anziani di cui si stava prendendo cura e per cui ha perso la vita. E come lei le altre centinaia di badanti che si prendono cura di anziani e disabili, mentre spesso a casa loro nessuno si prende cura dei loro genitori, dei loro figli.
Assurdo, vero? Quanto siamo simili, in fondo.
Basta così poco per smontare uno stereotipo. Basta un po’ di cura, di attenzione, di empatia. Allora, cosa vuol dire integrazione?
Menomale che se leggiamo un po’ più in basso, sotto la stessa voce troviamo anche: con valore reciproco, l’integrarsi a vicenda, unione, fusione di più elementi o soggetti che si completano l’un l’altro, spesso attraverso il coordinamento dei loro mezzi, delle loro risorse, delle loro capacità.
Che possa essere sempre questo, per noi, il significato di integrazione.
Autore: Ana Andros